ARIA catalogo mostra 2020

Un nuovo inizio, con occhi di bambina. di Giovanni Maria Riccio * (dal catalogo “ARIA”, Portogallo 2020)

A che serve l’arte? A chi serve la Street art? Domande impossibili, destinate a rimanere insolute.

Eppure non si può ignorare quanto avvenuto – da un punto di vista sociale e, forse, anche antropologico – negli ultimi decenni. Le opere negli spazi pubblici hanno riavvicinato le persone all’arte, ma non solo.

È un prisma complesso, composto di molte figure che si intersecano tra loro e si riflettono le une sulle altre, confondendosi e mischiandosi. Arte sì, ma anche storia. Evoluzione dei luoghi, vite di personaggi che hanno caratterizzato i luoghi stessi, episodi dimenticati, che però restituiscono un’identità al paesaggio urbano, troppo spesso omologato, pensato secondo criteri razionalistici.

Memoria sì, ma ancor prima radici, che accomunano gli abitanti di un posto e che li tiene uniti insieme, liberandoli dalle loro cellette, così simili a quelle di api operose.

Arte anche come tassello di un riscatto sociale per zone dimenticate, edificate senza fondamento, svilite delle proprie originarie identità. Tassello di un mosaico molto più ampio, del quale l’arte è un pezzo superficiale, nella piena consapevolezza che problemi endemici delle aree urbane possano essere mitigati dalla cultura, ma, per essere risolti, necessitino di interventi programmati e strutturali.

Un pezzo della storia artistica di Diavù è intriso di progetti di rinascita urbana, di spazi pubblici e privati. Non solo progetti di “abbellimento”, dove, anzi, l’elemento estetico può avere un ruolo secondario, né di riqualificazione urbana, perché manca la disonestà intellettuale di chi vorrebbe celare l’assenza di servizi essenziali con una “spruzzata” d’arte. Al contrario, quello percorso è un cammino in parte unico nella realtà italiana, caratterizzato dal coinvolgimento di altri artisti, dalla contaminazione tra forme espressive e racconti di un passato che ritorna, appunto, come radice del presente.

Un percorso che mette anche in discussione le regole proprietarie, attraverso un dialogo che coinvolge diversi attori. Non solo gli enti proprietari (giuridicamente) dei muri, ma anche, e ancor prima, gli abitanti dei quartieri in cui le opere si inseriscono, chiamati, insieme agli artisti, a pronunciarsi sull’impatto delle opere stesse nel contesto in cui si inseriscono, invitati a collaborare attivamente alla loro realizzazione, influendo sull’immaginario degli artisti. Un processo collettivo, che determina una sorta di “collettivizzazione” delle opere, che divengono di tutti e di nessuno.

Un’arte che convive con il contesto urbano, non lo violenta, che è il frutto di riflessioni del singolo che provano a farsi comuni, restituendo significato ai luoghi, riportando alla luce la memoria che, come flutti restituiti dalle onde, ritorna alla sua origine e coinvolge gli abitanti di quei luoghi. Un percorso condiviso, comune, come una pianta che rinasce nel suo habitat naturale.

Il riferimento alle radici non è però casuale, perché rimanda alla natura, deturpata dall’uomo. Si è molto scritto, in questi mesi di lock-down, del riappropriarsi degli spazi e dei contesti da parte della natura dinanzi all’indietreggiare forzoso dell’uomo. Un uomo indotto a ripensare alle sue scelte e, si spera, alle sue certezze granitiche e indiscutibili. La pandemia – si è letto da più parti – può essere l’occasione per fermarsi a riflettere, per rimettere in discussione tutto, partendo dalle scelte economiche che, negli ultimi decenni, hanno sacrificato l’uomo e i suoi ritmi, così come quelli della natura, di cui l’uomo dovrebbe essere un frammento e non il nocchiero.

Si riparte così nuovamente dalla storia, dal recupero, dalla natura. Il lavoro di Diavù si sposta dal contesto urbano e, sempre partendo dalle radici, riscopre gli elementi primari: l’aria, l’acqua, il ciclo vitale.

C’è un fil rouge che accompagna il lavoro dell’artista e che, dall’esterno, coinvolge la dimensione collettiva. Lo spettatore, questa volta, non è direttamente coinvolto, ma può assegnare valore e significato alle opere che, tuttavia, spingono a una riflessione sistemica, che si sgancia dall’attuale per racchiudere temi universali.

Il ritorno alle radici si intravede anche nella scelta del soggetto rappresentato: una bambina, quasi un invito a decriptare la realtà con occhi infantili, scorporati da sovrastrutture intellettuali e da costrizioni discendenti da imposizioni sociali e culturali.

Come altro vedere il tema dell’ecologia, centrale eppur ridimensionato nelle discussioni antecedenti alla pandemia, se non con uno sguardo puro, l’unico possibile per una palingenesi dell’attuale? Chi, se non un bambino, potrebbe discutere drasticamente e ribaltare il pensiero economico dominante, che ci ingabbia in meccanismi produttivi e in efficientismi così lontani dalla nostra infanzia?

Negli ultimi decenni, l’ideologia dominante ha lasciato spazio al capitale privato, chiedendo agli Stati – espressione e portatori degli interessi pubblici – di fare un passo indietro e di intervenire solo in caso di fallimenti del mercato. Una scelta di cui oggi si intravedono, nella loro drammaticità, i limiti, al cospetto di governi incapaci di fronteggiare crisi epocali come quella sanitaria o quella ecologica.

L’idea che il pubblico dovesse avere un ruolo sussidiario, limitato a interventi esterni o a forme di partenariato che privilegiassero comunque il profitto si sta rivelando, nel lungo periodo, fallimentare e disastrosa.

Cosa si domanderebbe una bambina come Aria di fronte a questa situazione? Quali sarebbero le sue risposte, se le spiegassimo che, per lunghi anni, abbiamo abbandonato ogni concetto di condivisione e di comunità, preferendo gli interessi di (pochi) singoli, sacrificando il nostro ecosistema e i nostri ritmi vitali, imponendoci orari di lavoro apparentemente flessibili, ma realmente continui, che troppo spesso ci separano dagli affetti, dalle passioni, dall’ozio creativo, dalla vita di comunità?

Siamo adulti e, quindi, non lo sappiamo. Però, provando a fare uno sforzo di immaginazione, se fossimo bambini, forse penseremmo che il mondo degli adulti è tutto sbagliato e che gli adulti, che pure sembrano così seri, non hanno capito in realtà nulla.

Quale bambino accetterebbe la deforestazione dell’Amazzonia brasiliana – il più grande polmone di aria per la terra – per creare pascoli per bovini, le cui carni saranno in gran parte destinate all’esportazione? Quali sarebbero le sue reazioni se gli raccontassimo anche che un consumo eccessivo di carne bovina è dannoso per l’organismo umano?

Forse, con la semplicità e il pragmatismo tipici dei bambini, concluderebbe che l’uomo sta distruggendo se stesso: si lascia dominare da un sistema economico opprimente e oppressivo; devasta la natura con comportamenti autolesionistici; sperpera le proprie risorse vitali.

Il tema della distruzione e quello opposto della conservazione è anche un immaginario fil rouge tra le problematiche ambientali e il dibattito in corso sull’arte pubblica. Il percorso artistico, ma ancor prima culturale di Diavù, sembra essere impostato a una ridefinizione critica del sillogismo per cui le opere realizzate negli spazi pubblici siano effimere e destinate a essere distrutte dal tempo: un paradigma che deve essere meditato, partendo dalla consapevolezza dell’importanza di tali manifestazioni artistiche nell’ambito del panorama più ampio dell’arte contemporanea.

Un paradigma non assoluto, ma modulabile a seconda dei casi, consapevoli che, in taluni casi e in presenza di determinati presupposti, dovrebbero essere valorizzate e sostenute istanze di tutela, finalizzate alla conservazione, alla valorizzazione e anche al recupero o al restauro (temi troppo spessi negletti e trascurati) di opere che rappresentano, anche al di là del loro valore semantico e politico, una rappresentazione di un periodo storico-artistico penetrato non solo nella coscienza sociale, ma oramai nella storia dell’arte e dell’urbanistica.

Ancora una volta, ritorna il tema della preservazione e del recupero, che accomuna l’arte e l’ambiente. Preservare l’arte per tutelare il nostro ambiente.

In questo racconto frammentario, eravamo partiti dalle radici. Adesso è il momento di spingerci verso nuove foglie e nuovi frutti.

Qualcuno vedrà nelle opere in mostra un richiamo ai miti di morte e rinascita; altri il continuo scorrere della vita, che da acqua si tramuta in aria e poi ritorna nuovamente acqua; qualcun altro si soffermerà sugli occhi di Aria, ora chiusi a sognare, ora arrabbiati, ora curiosi. Altri saranno affascinati dalla terra vista dallo spazio, con sbavature di pittura, così simili a sangue versato; altri ancora si interrogheranno sull’arte riproposta sui raccoglitori di immondizia, una commistione originale che, ancora una volta, rimanda ai due punti costanti nelle opere in mostra, punti così distanti eppure così connessi.

Ognuno leggerà il significato che preferisce, come è giusto che sia. Ogni mostra è un’esperienza sensoriale, ma, ancor prima, uno stimolo.

Diavù ci invita a riflettere sull’arte, che cresce ovunque, come erba spontanea, dai muri ai cassonetti della spazzatura, e sulla natura, che, come l’arte, si sta riprendendo i suoi spazi, anche con una reazione violenta a cui eravamo scioccamente impreparati.

Un nuovo inizio da ricercare e perseguire con gli occhi puri di una bambina.

Giovanni Maria Riccio

Roma, maggio 2020

* Docente di Legislazione dei Beni Culturali – Università di Salerno